“Dire grazie non costa nulla”? Non proprio, almeno quando il destinatario è un’intelligenza artificiale. A lanciare la provocazione – con una battuta che ha fatto il giro del web – è stato Sam Altman, CEO di OpenAI e figura chiave dietro lo sviluppo di ChatGPT.
Rispondendo su X (ex Twitter) a un utente che chiedeva quanti soldi l’azienda spenda per la cortesia degli utenti che digitano “per favore” e “grazie”, Altman ha scritto: “Decine di milioni di dollari ben spesi, non si sa mai”.
Il suo commento, ironico ma indicativo, ha subito scatenato un’ondata di reazioni, mentre oltre 5,8 milioni di utenti leggevano il post. Il messaggio? Ogni interazione con un chatbot ha un costo invisibile, e non solo in termini di dati o tempo.
Chatbot e consumi: ogni prompt vale 10 volte una ricerca Google
Secondo un recente rapporto dell’International Energy Agency, ogni singola richiesta inviata a ChatGPT richiede fino a dieci volte l’energia elettrica di una normale ricerca su Google. Il motivo? I modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) come quelli di OpenAI, Google (Gemini) e Meta (Meta AI), hanno bisogno di enormi risorse computazionali per generare ogni risposta.
Ma non finisce qui: oltre all’elettricità, l’IA consuma anche acqua, e parecchia. Uno studio dell’Università della California ha stimato che GPT-3 consuma fino a 500 ml di acqua ogni 10-50 risposte solo per il raffreddamento dei server. E durante la fase di addestramento, la spesa idrica sale a livelli spaventosi: entro il 2027, il fabbisogno d’acqua dell’IA potrebbe raggiungere i 6,6 miliardi di metri cubi, equivalente al 50% del consumo idrico del Regno Unito.
Cresce l’uso, crescono i dubbi
Con milioni di persone che ogni giorno interagiscono con ChatGPT, Gemini o Meta AI, è inevitabile che l’impatto ambientale dell’intelligenza artificiale diventi un tema centrale del dibattito pubblico. L’utilizzo massiccio di questi strumenti – spesso per richieste banali o conversazioni leggere – solleva interrogativi sul modo in cui stiamo integrando l’IA nella nostra quotidianità.
E allora, forse, ha davvero senso chiedersi: ha senso essere educati con una macchina, se quel gesto ha un impatto reale sull’ambiente?