Il governo italiano sarebbe vicino a varare un provvedimento inedito per il sistema penitenziario, che introdurrebbe agenti sotto copertura tra i detenuti. Il decreto, in fase avanzata di elaborazione presso il Ministero della Giustizia, rientrerebbe sotto la denominazione tecnica di “operazioni sotto copertura per la sicurezza degli istituti penitenziari”. La misura è promossa dal sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove, esponente di Fratelli d’Italia, e potrebbe essere discussa a Palazzo Chigi nelle prossime settimane.
Al centro della proposta, l’estensione alla Polizia penitenziaria dei poteri già previsti dalla legge 146/2006 – che recepisce la Convenzione ONU contro il crimine organizzato – per svolgere operazioni sotto copertura con identità fittizie, in coordinamento con la magistratura. In pratica, alcuni agenti potrebbero essere “infiltrati” tra i detenuti, con compiti informativi e di sorveglianza, operando senza responsabilità penale, qualora autorizzati.
Infiltrati in cella: tra sicurezza e diritti
Sebbene il decreto non parli espressamente di agenti “finti detenuti”, il quadro normativo che si prospetta sembra abilitarne l’impiego. Un cambiamento radicale, che trasformerebbe il personale penitenziario in una vera e propria intelligence carceraria, con poteri di raccolta informazioni simili a quelli dei servizi segreti.
Tale evoluzione, tuttavia, solleva forti perplessità: cosa accadrebbe ai diritti dei detenuti? Come si garantirebbero la trasparenza investigativa e il controllo democratico su queste nuove forme di sorveglianza interna? Le carceri rischiano di diventare laboratori opachi, dove la linea tra legalità e abuso si fa sottile.
Un nuovo equilibrio di potere nel Dap
Oltre agli agenti sotto copertura, il decreto prevederebbe anche una ristrutturazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). È prevista l’introduzione di una nuova figura di vicecapo, riservata esclusivamente alla Polizia penitenziaria. Secondo indiscrezioni, il candidato sarebbe Augusto Zaccariello, attuale vicedirettore generale del Personale del Dap e già comandante del NIC e del GOM.
Questa riforma andrebbe a rafforzare il ruolo della “quarta forza di polizia”, attribuendole una posizione di primo piano non solo nella gestione dell’ordine interno, ma anche nell’ambito dell’intelligence. Un segnale politico chiaro, che punta a un controllo più penetrante, forse anche più rischioso, del sistema detentivo.
I precedenti: il ritorno dell’ombra del “Protocollo Farfalla”
La proposta arriva in un momento delicato, in cui tornano a riaffiorare vecchie vicende legate ai rapporti tra intelligence e carcere. La procura di Caltanissetta ha recentemente riaperto le indagini sull’ex procuratore Gianni Tinebra, accusato di contatti con ambienti massonici e già coinvolto nel controverso “Protocollo Farfalla” del 2004: un accordo segreto tra Dap e Sisde per lo scambio di informazioni dai detenuti al 41-bis, senza il coinvolgimento della magistratura.
Sebbene oggi le basi legali siano più solide, l’ipotesi di un nuovo servizio segreto penitenziario riporta alla luce i timori di allora: strumenti di controllo fuori dalla supervisione giudiziaria, uso disinvolto del segreto, vulnerabilità dei detenuti.
Riforma silenziosa, senza dibattito pubblico
Preoccupa anche il metodo: una trasformazione così profonda rischia di essere introdotta per via amministrativa, senza un ampio confronto parlamentare né un serio dibattito pubblico. In un sistema già afflitto da sovraffollamento, suicidi e tensioni continue, l’approccio sembra puntare più sulla repressione che sulla giustizia riparativa.
In questo contesto, la domanda più urgente resta aperta: chi tutela i più fragili, quando lo Stato decide di combattere l’illegalità usando i metodi dell’intelligence anche dietro le sbarre?